martedì 8 dicembre 2020

E se ci chiedessimo «perché?»

Ogni momento di grande trasformazione storica deve essere accompagnato da una profonda riflessione del singolo e della comunità. Come esseri umani siamo di fronte a un’occasione unica per rivedere il nostro modo di percepire, di vivere e di cambiare il mondo affinché esso diventi uno spazio di uguaglianza, sicurezza e salute per tutti, animali e piante compresi. 
Ebbene sì, perché se c’è una cosa che abbiamo capito da questa pandemia è che non siamo «i soli» ad abitare questo pianeta e che forse proprio uscendo dall’ego troveremo la chiave giusta per evolvere verso un mondo migliore o comunque meno spaventoso di questo. 
E allora qual è il nostro ruolo in questa pandemica confusione? 

Leggere e analizzare numeri, dati e statistiche non basta a capire il «come», il «quando» e il «chi», e questo compito è giustamente appannaggio di esperti e studiosi che ne sanno molto più di noi. 
A noi resta invece occuparci dei «perché». 
E’ necessario interrogarsi sul perché il virus abbia avuto un impatto così devastante sul nostro sistema e sulla nostra quotidianità; sul perché le misure prese siano state restrittive al punto da creare tensioni e conflitti sociali facendoci dimenticare senso di solidarietà e comunità; sul perché ci sia concesso di affollare centri commerciali e negozi e invece sia ancora vietato visitare musei, andare al cinema e a teatro, e andare a scuola.
In primo luogo il virus ha scardinato le nostre abitudini: dal mese di marzo ci sembra di vivere come in gabbia ma la realtà è che, forse, la gabbia ce l’avevamo cucita addosso e adesso ci stiamo solo liberando.
Eravamo abituati a non avere tempo, perché il tempo lo mangiava il consumismo. Eravamo abituati a intrattenerci, consumare, distrarci e fare tante cose; il nostro mantra era «scusa ma non ho tempo, devo scappare!».
Adesso probabilmente il tempo è tornato. Prima ce ne eravamo forse dimenticati?

In secondo luogo, il virus ha scardinato le nostre certezze: molte persone hanno perso il lavoro e sono tornate sotto la soglia della povertà, a livello psicologico aumentano i casi di ansia e depressione e le piazze son tornate piene, ma di tensione.
Questo problema riguarda tutti noi, e ci riguarda non tanto perché è necessario parlarne, ma perché è necessario farsene carico, e il modo lo possiamo trovare solo noi. Ovviamente è lo Stato che deve farsi carico di queste situazioni a livello economico, ma anche noi possiamo fare molto: incentivare reti di solidarietà e scambio di beni di prima necessità, parlare con il nostro vicino, chiedere aiuto se ne abbiamo bisogno, smettere di scrivere commenti brutali sui social, calmarci, respirare un po’. Questa filosofia dei piccoli gesti può sembrare superata ma la verità è che l’abbiamo superata senza mai sperimentarla.
Perché non l’abbiamo imparata prima?

Infine veniamo ai luoghi: dopo l’ultimo Dpcm dove possiamo andare? Eravamo abituati ad «abitare» luoghi liberamente e ora sembrano tutti disabitati, come dopo un violento terremoto.
I «non luoghi», come li ha definiti l’antropologo Marc Augé (In «Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité», 1992) sono diventati i soli abitabili possibili: centri commerciali e supermercati, sono qui che gli adolescenti si ritrovano e vagano alla ricerca di uno spazio e della loro identità.
Qui arriva il perché più difficile da porsi: perché abbiamo chiuso luoghi identitari fondamentali come i musei, i cinema, i teatri, i centri dove svolgere attività sportiva e la scuola, dove le misure di prevenzione erano possibili mentre abbiamo lasciato aperti solo luoghi senza storia e identità?

Perché la nostra storia e la nostra identità si sono ridotte a questo?


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